NOTA: questo articolo è stato riesumato da un archivio web nel Agosto 2015 e postato rispettando la data originale in cui è stato scritto la prima volta. Testo trascritto senza alcuna correzione
Ieri sera ho ucciso un gatto.
E’ stata la prima volta che ho investito un animale in vita mia. E farlo con una moto, per un amante degli animale come me, amplifica atrocemente i sensidi colpa.
Era notte. Frenare non mi e’ bastato. Quando la ruota a urtato il muso del gatto, ho avvertito uno strattone sul manubrio e poi il corpo el gatto farsi improvvisamente pesante sotto ai miei occhi.
Devo avergli spezzato l’osso del collo.
Ho imprecato.
Non ho avuto il coraggio di tornare indietro.
Ritto ormai sulle pedaline, il faro del motorino che mi segue, illumina l’asfalto e fa ombra li dove un gatto sta morendo.
Accelero e stringo i denti.
Ho rubato una vita e con lei chissa’ cos’altro.
Poco dopo, ormai esausto dal giorno alla guida, dal sole che mi ha trasaformato la schiena in una superficie di bolle d’acqua facili a scoppiarsi e la polvere ed i detriti alzati dai camion, decido di fermarmi.
Ceno, prendo la pasticca per la malaria e cerco un posto per dormire.
Accanto alla locanda, riparata dagli alberi, una piazzola sulla rossa terra battua e aghi di pino.
Sta per piovere esono felice. La pioggia stasera mi proteggera’ dal silenzio che porta alla mente i frame dell’incidente.
A raggiungermi mentre monto di fretta l’igloo, qualche vietnamita munito di torcia che dall’abitato di fronte, viene a vedere cosa faccio.
Mi propongono di accamparmi da loro, come in Georgia, quando i poliziotti sono venut a farmi smontare la tenda nel mezzo di una bufera d’acqua all’unico scopo di farmela montare dove fosse visibile a tutti che un ricco straniero campeggiava davanti alla stazione di polizia.
Fottetevi!
Sono un po’ brusco in questi giorni e dico no dando le spalle ai vietnamiti che insistono ancora un po’ finche’ non mi vedono sparire dentro la tenda e abbassare seccamente la lampo.
Se ne vanno.
Dopo il temporale che dura due ore e che mette a dura prova la tenda, mi sveglio di soprassalto.
Ci sono 9 vietnamiti dell’abitato di fronte che scuotono la tenda per farmi uscire. Insistono affinche’ io muova la tenda da loro.
In Italiano, molto seccamente rispondo “Col cazzo che smonto tutto ora. Domani mi sveglio e tanti saluti eh!. Notte..!” e faccio per richiedermi dentro.
Vogliono vedere il passaporto.
Uno di loro sfoglia le pagine e legge il visto come fosse un autentico falso.
Poi prende il passaporto con se e sparisce.
Mi richiudo dentro e sento che gli 8 che si allontanano.
Staranno scrivendo i miei dati.
Quando mi risveglio sono passati 45 minuti.
Mi alzo, mi metto i pantaloni, felpa, esco in ciabatte e noto nel lontano abitato i 9 coglioni che fanno conversazione.
Sono talmente infastidito dal modo in cui le persone amano creare problemi e anche irritato dal sonno piu’ volte interrotto che sfoggio un eccesso mai manifestato di intolleranza e con voce da conerto, nel mezzo della pineta di notte, urlo.
“DAMMI IL PASSAPORTO PORCA PUTTANA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!”
Fingono di non capire. Non mi guardano nemmeno.
Li seguo negli uffici dove a testa bassa si spostano per non rispondermi.
Frugo fra le carte, tocco le loro tasche. In una trovo una pistola.
Lui crede di spaventarmi, ma io butto giu’ su un foglio una vignetta del mio passaporto.
Le loro spiegazioni sono che me lo danno solo se muovo la tenda nel loro cortile.
1. Prendo il telefono e faccio finta di parlare con qualcuno in italiano per 10 minti, lontano, dove sembri piu’ formale il tono della telefonata. Ma non li smuovo.
2. Tiro suori gli articoli di giornale e mimo sarcasticamente le loro facce o le loro risate, prendendoli in giro. UN tipo mi fa cenno di calmarmi e di sederti.
“Ma vai a fare in culo te e la panca!”
3. Riprendo il cellualre e fingo di dettare tutti i nomi che vedo, che leggo sulle scrivanie, sulle porte degli altri uffici. Lo faccio letamente, cercando di attenermi a quella che sembra la pronuncia vietnamita. Leggo perfino il motto di Ho Chi Minh. Quando poi capito davanti all’insegna con i dati dell’abitato, con fax e numero di telefono, non faccio in tempo a pronunciare le prime sigle che il tipo seduto che mi invitava a sedermi mi interrompe e mi allunga il passaporto.
Lo guardo malissimo. Prendo il passaporto e fingo di annullare l’operazione di bombardamento precedentemente pianificata via telefono con il mio inesistente interlocutore.
Mi sono sentito furbo a quel punto e loro, ero certo, non avrebbero disturbato piu’ il mio sonno.
Un abbraccio.
gionata