Giappone: Giocare sporco (Dirty)
NOTA: questo articolo è stato riesumato da un archivio web nel Luglio 2015 e postato rispettando la data originale in cui è stato scritto la prima volta. Testo trascritto senza alcuna correzione
Con i calzini che pestano questa moquette silenzionsa, attendo il prossimo studente.
Ieri, due dei miei asssistenti, mi hanno richiamato per puntualizzare sul mio stile di insegnamento.
“Non ci aspettiamo che i bambini imparino l’inglese venerndo qui per un’ora alla settimana”…
Questo per farmi capire che il grosso business giapponese non punta tutto sull’inglese che gli studenti apprendono, ma sull’indice di gradiento che ne traggono i genitori che sponsorizzano i figli pagando tasse di iscrizione stratosferiche.
E chi ci guadagna é il mio boss, suo figlio ed ovviamente io.
15 euro l’ora per far ripetere ai bambini delle carte colorate e farli divertire, anche se l’istintiva intenzione di trasmettere loro qualcosa di vero e di utile vada così a farsi benedire.
“Dovresti soffermarti meno nel far capire ai bambini la lezione. Loro si annoiano e se i genitori non sanno il proprio figlio soddisfatto, lo iscrivono in un’altra scuola”
Capisco perfettamente e mi rendo conto che sono lì per sopravvivere e non per fare una missione di cultua. La vera cultura me la sto facendo io, su un paese chiamato Giappone.
“Dovresti cambiare il tuo stile” mi dicono infine. E io afferro il concetto.
Rimane il fatto che mi sento incapace di fare una cosa contro voglia e più che realizzo questo stato d’animo, più che affroto ogni nuovo giorno con apprensione, con senso di inadeguatezza e con malumore.
A 10 minuti dall’arrivo del mio studente privato, mi riconosco muto su una sedia dell’ufficio insegnati con i miei due colleghi che si intrattengono in inglese con gli assistenti (giapponesi).
Non ho voglia di interagire, di comunicare il mio stato d’animo o di giocare ad essere sereno. Perfino le mie capacità linquistiche, con il mio nuovo stato d’animo, mi sembrano insufficienti, opinabili, penalizzanti.
Ogni scmabio verbale con i miei colleghi nativi dall’Australia e Ameica, si limitano a un “Yes”, “No”, “Maybe” o un sorriso sfuggente.
Penso che fra pochi giorni faranno di tutto per fare del mio approccio sbagliato con gli studenti, il primo di una lunga serie di mancanze professionali che diano come risultato il mio licenziamento.
Il collega americano mi avicina a più riprese. Cosa faccio nel week end, dove abito, che musica mi piace. Domande che sembrerebbero perfettamente normali, ma che paranoicamente mi sembrano fare parte di un’indagine.
Al primo sbaglio o contraddizione, sono fuori.
Mi mostro quindi freddo, come non lo ero stato prima del giorno in cui sono stato richimato. Ma l’americano é furbo e vuole farmi parlare a tutti i costi.
Mi invita a bere una birra per il dopo cena.
Insiste così tanto che mi preparo a usare il mio migliore inglese sperando che non spazi su argomenti che mi mettano in difficoltà, ora che il mio inglese vacilla per l’insicurezza.
Ci sediamo. Offre lui. Non ci mette un secondo a dirmi che gli piaccio. Che é stato lui a fare del mio colloquio il punto di forza per aiuare il boss a decidere. Che ha capito che sono un viaggiatore, che sono di passaggio e che sto facendo una cosa ammirevole perché salto da un paese all’altro senza problemi e che sto arrangiondomi in maniera scaltra e abile.
Io temo voglia solo mettermi nelle condizioni di smerdarmi da solo e ringrazio senza aggiungere.
Lui mi racconta di se. Di un anno passato aa casa a drogarsi, del fatto che ha avuto un incidente stradalo con il fratello che gli segna il petto con una lunga cicatrice, del fatto che ha un anno in meno di me (cosa?) e che é sposato con una giapponese di 32 anni.
Vede che non mi sbilancio e spara il proiettile finale.
“Se sono sposato é perché ho il visto. Se ho il visto é per fare dei soldi. Se voglio fare dei soldi é perché voglio fare l’Host (il gigolò) e se voglio fare il gigolò é perché voglio portarmi a letto tutte le giapponesi più ricche e godermi i vestiti che disegnano quelli del tuo paese”
In un istante la birra che bevevo a sorsi piccoli e amari, diventa fresca e deliziosa, la mia sedia si allarga, il io stomago si rilassa e mi sale al cervello una risata che però non faccio uscire.
Ho davanti un americano di 21 anni che é venuto qui a fare quello che lui crede sia la meta di una vita e non mi sento minimante a disagio nel realizzare che in confronto io sto facendo un’azione di solidarietà per il Giappone.
Non mi sbilancio ancora e mi mostro stupito e interessato.
Nei giorni seguenti io e l’americano diventiamo amici. Mi invita spesso a trovarci il fine settimana per “rimorchiare le ragazze” e mi chiede consigli su affitti più economici visto che prevede di divorziare dalla moglie per avere un peso in meno a cui pensare.
I giorni a scuola diventano un sollievo.
La voglia di insegnare rimane, anche se la reprimo, ma il io ruolo diventa benevolo e non maligno come mi ero spinto a pensare.
Scopro poi che l’altro mio collega dell’australia ha addirittura 20 anni ed é in mezzo alla stessa situazione, solo che si porta a letto la madre di una delle bambine della preschool.
Grazie all’ Halloween party instauro con i miei studenti e con me stesso, un approccio educativo sensibile ma gioioso. I bambini mi adorano e i loro errori per me sono la gioia di sapere che vivono le lezioni senza pressione alcuna.
Io e l’americano parliamo spesso di giochi sporchi. Mi dice che lui sa di essere “dirty” e mi chiede in tutta confidenza se nel segreto lo sono anche io.
Il fatto che mi chiami il suo migliore amico dopo nemmeno due settimane solo per aver vuotato il sacco con il primo che passava (che sarei io), mi tengo tutto per me.
In realtà il mio boss sa del mio viaggio e dice a tutti quelli che mi conoscono che sono arrivato in Giappone in moto. Si aspettano che io rimanga tre anni, ma non sanno che in realtà sono disposto a fermarmi per massimo uno, se tutto va bene.
Non ho un visto, ma la procedura che richiede tre mese é quasi finita.
Non ho mai insegnato come invece ho dichiarato, ma nelle condizioni in cui é richiesto di “insegnare” mi sento più capace di altri che al posto mio eviterebbero di abbracciare i pargoletti per pudore o di donare loro un sorriso facendoci alla lotta per paura di sgualcirsi l’abito.
“No, mi spiace. Non é il momento per me di fare i giochi sporchi. Li ho fatti in passato, forse li rifarò, ma adesso sono qui con l’intenzione di fare un’esperienza positiva”
Nel mese seguente, i miei studenti corrono in classe per fare a gare a chi mi salta addosso per primo. Quelli assenti che hanno la lezione di recupero con l’americano, lamentano alle madri di voler fare lezione con me per i motivi più disparati.
“Gionata sa fare le voci. Con noi fa la lotta. Sa fare l’imitazione di Tsuyoshi. Ci fa ridere. Colora sempre con noi e fa le facce dei mostri…”
I mesi procedono. Il visto non arriverà prima delle prissime due settimane. Devo volare in Corea e sperare che mi facciano rientrare. Nonostante la promessa di assunzione, riscuoto 1800 euro al mese abusivamente.
Pago il biglietto aereo senza lamentare rimborsi o aiuti da parte della mia azienda.
Torno e riparte tutto come prima.
Una sera con i colleghi ce ne andiamo al Karaoke, ma l’invito parte da Tsuyoshi ed é rivolto a me. Quando l’americano viene a sapere che non é stat invitato (da me specialmente) si offende e si impermalosisce come un bambino.
Con il giapponese che conosce e l’anzianità che ha all’interno della scuola, ottiene 6 delle mie ora alla preschool senza interpellarmi.
Con stupore e disdegno per lo scherzo fattomi, mi presento furioso dal boss a cui chiedo perché non sono stato interpellato di una variazione sulle mie classi settimanali.
“Robert ha chiesto di avere le tue ore e noi gliele abbiamo date”
“Bene, io adesso chiedo di riaverle indietro, visto che non avevo intenzione di alleggerirmi la settimana.”
“Mi spiace, ma sono le regole e se non le condividi puoi lsciare la scuola oggi stesso”
“Benissimo”
Sembra che torni a fagiolo. Giusto la settimana prima avevo acquistato i pezzi di ricambio per la TAnia e fissato un appuntamento con il signor ODA per prelevare il mio mezzo dal porto si Fushiki.
Avrò almeno il tempo di spedire gli affetti a casa, fare un regalo a mia madre, svuotare l’appartamento, lavorare al sito a tempo pieno e fare un favore ad un amico.
Ma il dispiacere che provo per i bambini che dovrò lasciare senza poter dire loro quanto mi mancheranno, mi avvilisce e con dispiacere, mi avvio verso la porta da cui uscirò per l’ultima volta dimenticando la mia ultima busta paga.
Il boss mi insegue con i miei soldi. MI guarda con mille parole trattenute in fondo al cuore. Non può contraddire la decisione della moglie, presidente ed amministratrice della scuola. Ma mi abbraccia (come di solito i giapponesi non farebbero mai).
“See you….” mi dice.
“See you, Mr Sakamoto”.