Grecia: Ricordi del pernottamento con lo sconosciuto di Likovittos
NOTA: questo articolo è stato riesumato da un archivio web nel Luglio 2015 e postato rispettando la data originale in cui è stato scritto la prima volta. Testo trascritto senza alcuna correzione
Sono di nuovo ad Atene, in attesa che il giornalista de Elefterotipia, mi riceva il prossimo lunedi’ per un’intervista. Per evitare di mischiarmi con il caotico traffico e caotico ritmo incessante di questa citta’ tutta bianca e vetri che soffoca, mi apposto in vetta al colle che guarda dall’alto l’Acropoli. Sono sul colle Likovittos, famoso per essere il piu’ alto della citta’, per il panorama che offre e per la famosa chiesa ubicata sulla sua vetta, dove e’ possibile fare miriadi di bellissime foto.
Sono qua da tre giorni. Ho scritto miriadi di lettere a Vania che poi non ho mai fatto in modo che ricevesse. Ho scattato foto che poi ho cancellato, ho ascoltato a lunghissime conversazioni in un greco per ancora troppo articolato e simile all’italiano per risultarmi compresibile.
Ho dormito davanti a decine e decine di coppiette, amici ubriachi o fumati, colleghi di lavoro, motociclisti, turisti che di notte gremiscono il parcheggio vuoto di questo colle per accompagnarsi fino al proprio letto, stanchi e senza nient’altro da fare.
Addirittura ho fatto da testimone a miriadi di copule, insaccato nel mio angolino scuro di questa piazza accanto alla mia mastodontica moto, qualche gruppo infausto di amanti si concede senza vergogna alcuna verso la mia presenza, focose emissioni di lussuria accompagnate da cigolanti sedili dei passeggeri posteriori.
Trovo piacevole tutto questo contesto sociale. Mi avvolge, mi riscalda e da un colore ai miei momenti che altrimenti mi apparirebbero sempre gli stessi.
Ma trovo di una noia mortale non poter oziare nel mio sonno fino a tarda mattina. Infatti disturbato dall’afoso sole del mattino che cuoce questo asfalto nero e me che vi ci dormo sopra, decido brillantemente di trovare un luogo piu’ adatto al mio pisolino.
Scovo nella notte un varco fra i cespugli e mi addentro con la torcia. Non so come finisco in un posto vicino alla strada ma particolarmente ampio e silenzioso. Spegno la luce e taccio.
Sento il mio respiro precedere la percezione che ho di esso. Lo trattengo e mi stupisco nel notare che questo respiro continua. Illumino per scovare l’origine del suono e intravedo su una panchina un paio di scarpe.
Scappo…..
Sembra una scena di una paura mortale. Un uomo che dorme su una panchina in un bosco e chissa’ chi potrebbe essere, oh mio dio no, non voglio saperlo oddio no.
Poi mi fermo e penso.
Potrei essere io quell’uomo. Del resto dormo per strada da un mese. Chissa’ quanti hanno desistito dall’avvicinarmisi e si sono ingegnati a cambiare strada per la mera paura che dentro al mio sacco a pelo si trovasse un mostro.
E quante volte invece avrei voluto diluuire la mia solitudine con la preenza di un estraneo che con una serie di domande trovasse in me una persona buona. E magari puoi instaurare un’amicizia o una conversazioone saggia.
Mi volto verso il sentiero che stavo percorrendo di fretta e ritorno sui miei passi.
Arrivo fin quasi alla testa di quest’uomo che dorme profondamente e che adesso russa.
Inquietante essere cosi’ vicini ad un estraneo nel buoi della macchia e sapere che potrei essere io al suo posto e che qualunque cosa potrebbe accadermi se uno scellerato si presentasse come sto facendo adesso, alla nuca di un ubriaco che dorme su una panchina.
Terrorizzante.
L’aria frizza di tensione. La mia. Finita l’emozione spengo la torcia e ritorno alla moto al buio. Accertandomi di non fare troppo rumore e sperando di reincontrare questo uomo di nuovo, magari di giorno.
Per farlo, salgo in sella durante un pomeriggio piu’ noiso degli altri e mi addentro nella macchina che addobba questo colle. Spoglio sulla vetta infatti, gremisce di pinete e di sentieri fantasticamente resi “nature” da geniali architetti.
Fra i sentieri di questa macchia ci trovi di tutto. Uomini in bermuda e canottiera bianca che con sigaretta sempre accessa portano il cane a “pascolare”. O bambini che gridano attorno ad un tavolino, con le madri impegnate in chissa’ quale cospirazione ai danni di false amiche che non hanno invitato su quelle stesse panchine dove siedono gia’ da ore.
Visto tutto questo, trovo per miracolo e con gioia, l’angolo piu’ tetro ed isolato della macchina che, magicamente, presenta un chiosco di legno, un tavolo bruciato a meta’ da vecchi vandali e delle panchine avvolte dalle erbacce.
Su una di queste panchine siede un uomo sulla 50ina, con una barba sfatta, un volto corrugato dalla solitudine e con in bocca una sigaretta a cui la cenere rimane attaccata per magia.
In viaggi come il mio la troppa solitudine logora.
Risulta costruttiva quando uno se la concede. Ma altrimenti diventa scomodo, avvilente e alimenta tutte quelle insicurezze che generano ancor ppiu’ schiacciante e deprimente solitudine.
Come quando dicono che astenersi dal sesso generi in realta’ un desiderio sessuale sempre piu’ sottile.
E mentre sorrido pensando che non voglio fare sesso con quest’uomo ma solo astenermi dalla solitudine (bene mettere i punti sulle i), mi avvicino a piedi con la moto spenta che scricchiola per il caldo alle mie spalle.
Riconosco il posto. E la panchina dove dormiva. Non riconosco le sue scarpe, ma mi siedo senza esitare. Prendo fornelle ed ingredienti e prepare una buona pasta al pomodoro. Abbondo con le dosi egliene offro un po’. Lui timidamente rifiuta, e continua nella sua scrittura.
Lo scruto attento, oltre quel suo occhio strizzato per il fumo della sua stessa sigarezza e quella penna che scrive cose che non posso decifrare perche’ in greco. Sembra un babone che scrive a se stesso i momenti belli della vita, prima che questo lo riducesse alla persona sola che sembra apparire.
Non parla inglese, ma con il suo greco si complimenta per il mio piatto cosi’ abbondante e rosso di pomodoro. Approfitto per offrirgli ancora della pasta che e” avanzata ma e” restio.
Non parliamo. Ci ho provato. Impacchetto la mia roba me ne vado.
Ho ancora un notte da passare qui. Almeno adesso sa chi sono. Se mi rivede mi saluta e chissa’, magari fra una sigarette e l’altra, mi dice anche qualcosa.
A notte fonda ho gia’scritto piu’lettere e desiderato piu’ donne (abbracciate a uomoni sempre osceni e apparentemente insipidi), di quanto non mi sia capitato negli altri giorni. Schiacciato dal vano tentativo che una mia domanda ha dato al fine di instaurare una discussione con un gruppo di ragazzi, mi arrendo e inforco la moto verso il mio giaciglio.
Stasera cambio. Almeno la notte la passo in compagnia.
A fari abbaglianti e prima marcia, calpesto lo sterrato del sentiero per mantenermi in equilibrio e raggiungo grazie alla memorie il luogo dove ho mangiato davanti al barbone e dove la sera prima l’ho scovato a dormire sulla panchina.
Svoltando nello spiazzo con inerzia, intravedo nell’attimo prima di spegnere il motore per non fare rumore, i suoi piedi che di nuovo spuntano dalla panchina.
Senza presentarmi, prendo stuoia e sacco a pelo e disinvolto vado a mettermi su un tavolino non molto lontano da lui. Distendo il telo, srotolo il sacco, mi levo le scarpe e mi infilo sotto.
A pancia in su, sotto le stelle… respiro e aspetto in silenzio.
La moto lo ha svegliato. Si gira nel suo giaccone bisunto. Rovescia quella che sembra una spranga di ferro su quelle che sembra delle lattine vuote di birra.
Si colpisce con il palmo della mano su un braccio per le zanzare con una violenza incredibile e sussurra a dentri stretti…
“….mother fucker….”
Eh pero’, i convenievoli in inglese li conosce. E anche con un buon accento…
Sorrido di rimande sperando di sollecitare in lui un senso di leggerezza e simpatia e aspetto.
“Ok so, i came here after a 10 hours day working, i’m so freaking tired, so… i don’t know what do you wanna from me guys, i don’t fucking care so, please let me sleep and be quiete ok, shit… fucking mosquitos… damn… shit…. mother fucker….”
spiazzato dalla violenza di certe parole afferro con terrore il fatto che mi trovo avviluppato nel mio sacco a pelo su un tavolo di legno e al buoi piu’ totale con la mia moto e le mie borse aperte, accanto ad uno sconosciuto abriaco inglese che oltre tutto mi odia perche’ l’ho svegliato durante il pisolino…..
Paralizzato assottiglio l’udito talmente tanto che mi sembra di essere diventato sordo. Il ssilenzio e’ cosi’ totale che mi sembra di non sentirci bene ed ho come l’impressione di sentirlo avvicinarci con quella sua sbarra di ferro e fracassarmela sulla faccia.
Rispondo con un tono inverosimilmente sereno e pacifico…
“Oh sorry, i didn;t know about you… i’m just trying to sleep too… i’m here with my sleepbag couse i’m a traveller and i usaully sleep outdoor, but if you mind, i can also move to some other place, no problem….”
Dopo un sospiro che sembra espiremere l’enorme sforzo con cui si limita a rispondermi a voce anziche’ con le mani, dice…
“ok, so…. i’m so freaking tired and i don’t wanna have trouble ok, i don’t give a fuck about who you fucking are and what you are fucking doing… please be quiet i need to sleep, ok…?
“, oh sorry, ok….”
Silenzio…
Potrei alzarmi e lentamente ma risolutivamente andarmene e so che anche lui lo preferirebbe. Un po di rumore in piu’ ma almeno non risentirebbe del fastidio di avermi fra i coglioni.
Invece mi punisco e mi sforzo di dare un senso alla mia scelta e rimango dove sono.
Avviluppato al mio sacco a pelo, spero che il mio russare non lo svegli e che al mio risveglio, tutte le mie cose sistemate nelle borse aperte, rimangano dove sono.
Non me la sento di fare casino solo per chiudere a chiave due borse, quindi mi forzo a dormire e dopo qalche quarto d’ora apprensivo mi affievolisco e mi spengo avvolto dalla notte, dalla paura e dalle stelle che se la ridono.
Al mio risveglio non ci sono arcangeli che mi conducono alle porte del paradiso, ma solo la mia moto integra e intoccata che domina lo spiazzo illluminato dal sole caldo e violento dell 11:30 del mattino.
Forse ti ricorderai dell’evento Lungastrada sulle colline di Parma a Maggio/Giugno, dove alla fine della tua presentazione ti chiesi proprio questo: come hai gestito la solitudine nel tuo lungo viaggio in solitaria? La tua risposta fu che la solitudine tante volte l’hai cercata, ma il post qui sopra sembra raccontare il contrario. Certo 8 anni sono lunghi, ci sono momenti in cui si sta bene soli, momenti in cui si cerca compagnia, momenti in cui va bene tutto. Certo e’ che siamo “animali” sociali, e l’interazione con gli altri fa parte dell’essere umano che si organizza in societa’ e non vive isolato se non in rari casi. Credo faccia parte dell’essenza del viaggio in solitaria, trovarsi lontano da casa dove tutti magari ci sorridono (beh, non sempre…come a Likovittos!), pero’ sono e restano estranei. In quella situazione si e’ soli con se stessi, nel bene e nel male, con tutta la liberta’ a disposizione ma con i nostri limiti e paure. Siamo esseri umani.
Ciao Valerio, certo che mi ricorco. Generalemten quando riassumo 8 anni in una risposta mi baso sull’aspetto preponderante e i primi mesi dopo la partenza (almeno fino alla Russia, quindi i primi 3) erano come questi raccontati in Grecia, perché in Europa c’era comunque tanta gente e perché io mi stavo piano piano staccando dall’abituale presenza loro. Gli altri 96 mesi sono stati invece un alternarsi di lande desolate e mesi lavorativi in grandi centri urbani e dalla Russia in poi ho capito che ogni volta che mi rintanavo nel silenzio desolato delle praterie mi sentivo appagato e bene con me stesso. Queste prime esperienze si sono intensificate sempre di più e credo che la mia risposta di oggi si basi sulle innumerevoli notti e giornate trascorse lontane dalle persone.